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La Sādhanā non è una routine

Per Sād­hanā per­son­ale si intende una serie di āsā­nas, di prānāyā­ma,  oppure di pratiche di med­i­tazione che quo­tid­i­ana­mente cer­chi­amo di appli­car­ci a fare. Si trat­ta di un aspet­to molto del­i­ca­to da affrontare, in quan­to appli­car­si sis­tem­ati­ca­mente con lo stes­so orario e le stesse pratiche equiv­ale a dis­ci­pli­nar­si e appro­fondire un’esperienza  e questo é grande­mente utile.

Ma come sem­pre esiste un lim­ite che é quel­lo di ren­dere rigi­da la nos­tra prat­i­ca. Non sem­pre, ma con facil­ità si rischia, di atti­vare  una sor­ta di rou­tine, talo­ra acom­pag­na­ta da  una specie di appaga­men­to emo­ti­vo capace di nutrire prin­ci­pal­mente il nos­tro ego e, come dice­va un mio mae­stro ormai lon­tano: “Quan­do c’è ego non state prat­i­can­do yoga “.

Che siano eser­cizi fisi­ci, immo­bil­ità da sedu­ti o tec­niche res­pi­ra­to­rie, il modo in cui ci approc­ciamo alla nos­tra Sād­hanā cam­bia total­mente il risul­ta­to che ques­ta può regalarci.

Noi essere umani non solo ci gongo­liamo di fare attiv­ità di questo tipo ma anche ten­di­amo a ridurre sem­pre tut­to ad azioni ripet­i­tive e mec­ca­niche dove si perde quel­la fres­chez­za del­la pri­ma vol­ta e anche quell’ascolto pro­fon­do, restando mag­gior­mente in super­fi­cie mag­a­ri pen­san­do a quel­lo che seguirà se fat­ti in inizio gior­na­ta oppure colti da un colpo di son­no se fat­ti in tar­da ser­a­ta. I due gran­di nemi­ci del prat­i­cante sono sem­pre i trop­pi pen­sieri e il son­no; entram­bi ci allon­tanano dall’obiettivo ulti­mo del­la prat­i­ca che è trovar­si e ascoltar­ci non già con la mente ma con occhi e orec­chie interni.

Che fare per ren­dere l’incontro con se stes­si davvero un momen­to arricchente?

Il mio con­siglio è non avere fret­ta, come nel­la ses­su­al­ità oppure come quan­do si vuole incon­trare un ami­co. Il tem­po va pre­so gen­erosa­mente e sen­za essere col brac­ci­no cor­to. Si trat­ta di una sor­ta di ospi­tal­ità inte­ri­ore che é sem­pre  un ingre­di­ente fon­da­men­tale. Il pulire, il met­tere un fiore o anco­ra frut­ta come nei  riti Bud­dhisti rap­p­re­sen­ta alla fine esat­ta­mente questo sen­so di invi­to a casa nos­tra di un ospite gra­di­to. Uno spazio intera­mente nos­tro ritaglia­to con atten­zione e cura.

Se i trop­pi impeg­ni ren­der­an­no il tem­po un osta­co­lo bisogn­erà impara­re a rubar­lo ovunque si pos­sa far­lo, riconoscere per esem­pio tutte quelle attiv­ità che han­no poca impor­tan­za per noi stes­si e che riconos­ci­amo come fran­ca­mente inutili se non addirit­tura dan­nose ma nelle quali ince­di­amo nos­tro mal­gra­do. Altret­tan­to di grande aiu­to sarà impara­re a tuf­far­si nel tem­po amplian­done la pro­fon­dità;  allo­ra, anche se breve, quel istante diven­terà una por­ta di acces­so al nos­tro spazio inte­ri­ore che non vive nel tem­po: una sor­ta di spazio sen­za tempo.

Si trat­ta di richia­mare a noi ques­ta pos­si­bil­ità e sem­plice­mente desider­ar­la come si desidera un amante; i Bud­dhisti par­lano di un seme pre­sente in ognuno di noi. Sapere dove cer­car­lo e come atti­var­lo può essere il risul­ta­to di un lavoro talo­ra lun­go anni ma anche la vic­i­nan­za con per­sone  o situ­azioni esterne che pos­si­amo definire aiu­ti sul­la strada.

Tut­to questo con la rou­tine ha poco a che fare; nel­la rou­tine si rischia di perdere il con­tat­to con noi, un po’ come nel ses­so abit­uale si perde il con­tat­to con il com­pag­no oltre che con noi stes­si caden­do in movi­men­ti mec­ca­ni­ci. Niente di grave, evi­ti­amo di sen­tir­ci in col­pa per questo ma sem­plice­mente teni­amo ben a mente la dif­feren­za tra le due cose. Se sarà il deside­rio di dimostrare a noi stes­si o a qual­cuno altro che siamo capaci di fare la Sād­hanā con rego­lar­ità, ben ven­ga comunque, sarà il pun­to di parten­za di un lun­go viag­gio. Rius­cire­mo ognuno con i nos­tri per­son­ali tem­pi a capire la stra­da per entrare in con­tat­to con noi stes­si e desider­ar­la ques­ta Sād­hanā, non per dimostrare alcunché ma solo per incontrarci.

Intan­to riten­go fon­da­men­tale iniziare a lim­itare per quan­to pos­si­bile tutte quelle attiv­ità che ci tol­go­no ossigeno e ener­gia vitale, in prim­is riconoscen­dole sul nascere ovvero riconoscen­dole subito quan­do le vivi­amo e con un cer­to dis­tac­co cercher­e­mo di lim­i­tarne lo spazio e anche l’esistenza nel­la nos­tra tes­ta. Sec­on­do e altret­tan­to impor­tante, riconos­ci­amo quan­do per­diamo tem­po, con dis­cor­si total­mente inutili,  sui social, davan­ti alla TV, dietro a un giochi­no sce­mo; pen­si­amo di rilas­sar­ci ma ci imbam­bo­liamo, ci per­diamo e per­diamo il con­tat­to con noi stes­si diven­tan­do facili prede per le emozioni più basse,  pen­sieri  total­mente privi di sig­ni­fi­ca­to spes­so retag­gi di situ­azioni ormai vec­chie e ammuf­fite che sem­plice­mente si fan­no spazio nel­la nos­tra mente: asso­lu­ta­mente inca­paci di arricchirci.

Si trat­ta di met­ter­ci al pri­mo pos­to appe­na pos­si­bile; è l’unico modo per trovar­si con amorev­ole rego­lar­ità ed è l’unico modo per impara­re a esser­ci e quin­di essere utili a noi stes­si e agli altri, soprat­tut­to quan­do intorno a noi reg­nano sem­pre mag­gior con­fu­sione e manipo­lazione mediatica.

Una cosa però é con­for­t­ante: quan­do vera­mente ci tro­vi­amo, lo sap­pi­amo, lo riconos­ci­amo come ha spie­ga­to Francesco Ama­to in un suo post: é esat­ta­mente come quan­do arrivi di fronte al mare, non puoi più con­fonder­lo con un laghet­to e tan­to meno con una pozzanghera.

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Catherine Bellwald
Catherine Bellwald
Medico, Fisiatra, Agopuntrice, Istruttrice Yoga Alliance YACEP, E-RYT 200, RYT500

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