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In molte tradizioni yogiche esiste il principio del Sankalpa, quello che la mia insegnante di yoga Cristina Howard chiama (e non potrebbe definirlo meglio) “l’intenzione della nostra pratica“. Non si tratta di un inventarsi un desiderio oppure di fantasticare su un’idea da realizzare. Si tratta di richiamare a sé e dentro di sé quello di cui necessitiamo per crescere interiormente e poterlo poi sviluppare all’esterno e nella vita quotidiana.
E’ davvero interessante notare, come tutto ciò che é vero o che profuma di vero contenga il suo opposto, in alcuni testi Zen si parla “dell’intenzione della non intenzione”
In termini filosofici potrei dire che significa richiamare l’opposto ponendoci esattamente nel nostro centro, richiamando a noi il nostro complementare, la forza capace di farci da specchio e da contraltare, non già per rafforzare il nostro ego o personalità ma per equilibrarlo, temperarlo, raffinarlo e per direzionarlo affinché acquisti un significato più ampio e utile; potrà quindi non essere tutto semplice e roseo, proprio perché tendiamo a combatterlo il nostro complementare, ma di grande utilità per la nostra maturazione interiore.
In termini semplici e pratici significa rivolgere lo sguardo al nostro interno e guardare con onestà in cosa siamo deboli e in cosa necessitiamo di sostegno e di rinforzo, senza giudizio, senza aspettative solo come riconoscimento di uno stato e come richiesta del cuore. Un concetto che esiste in tutte le religioni e che in molte vie spirituali dove il concetto del ” chiedete e vi sarà dato” del Maestro Jesus assume sfaccettature diverse talora mistiche ma non poi cosi diverse.
Un aspetto fondamentale del Sankalpa affinché assuma il suo valore è la nostra pulizia interiore. No non si tratta di farsi un bagno e lavarsi bene, anche se è ovviamente utilissimo alla pratica ripulirsi anche fisicamente, cambiarsi di abito, così come pulire e sistemare ordinatamente il luogo dove praticheremo; per pulizia qui si intende un mettersi a nudo con la semplicità di un fanciullo. Si tratta di un’attitudine interiore che credo appartenga a quello che la Blavatsky definiva come raggio Devozionale e che in molte persone risuona naturalmente e corrisponde a una vera e propria porta d’accesso interiore.
Il resto avviene da sé; se apro un vaso chiuso esso naturalmente si riempirà di quello in cui sarà immerso. Se al posto di restare nella mente razionale scendiamo e ci sediamo nel cuore, potremo accedere a uno spazio di possibilità o di comunione con il nostro vero essere e con altri esseri. In molte culture spirituali i Maestri del passato formano una sorta di grande mala o di rete di comunicazione alla quale è possibile connettersi come con internet; la wifi in questo caso si attiva dalla forza del cuore e la pulizia ne garantisce una buona trasmissione. Alcuni la definiscono la rete di Indra altri come il maestro Thich Nath Hanh parla di ” inter-essere”
Se riusciremo a restare collegati al nostro interno durante la pratica yogica, indipendentemente dalle forme e posture raggiunte con il corpo fisico, potremo nutrire la nostra intenzione ovvero nutrire, rinforzare e sanare il nostro interiore grazie a questo collegamento con altri esseri e con i grandi Esseri di ogni tempo. Ecco che la nostra pratica fisica non ci donerà solamente elasticità legamentosa ed articolare, forza muscolare e resistenza ma avrà il potere di diventare una sorta di cura e di carezza interiore, un unguento potente capace di metterci in armonia dentro e fuori.
Se di fronte a questo incredibile e infinito spazio potenziale riuscissimo a sentire il nostro insignificante e microscopico punto di esistenza, il nostro essere come bambini capricciosi e testardi continuamente affaccendati, oppure percepire noi stessi come piccolissime, incredibili possibilità; allora per analogia complementare sentiremo anche di appartenere alla Grandezza e Bellezza che ci circonda in ogni dove e di farne semplicemente parte.
Questa é la potente forza interiore dello yoga e di moltissime discipline orientali.